ZIO VANJA
di
Anton P. Čechov

NOTE DI REGIA

Il 17 ottobre 1896 Anton P. Čechov era un medico di 36 anni con la passione per la scrittura: racconti e teatro. Proveniva da una famiglia di umili origini (i nonni erano stati servi della gleba) che si era emancipata con attività di commercio. La professione di medico si alternava alla scrittura, dalla quale aveva ottenuto più di qualche successo, soprattutto in campo narrativo poiché, per quanto riguarda il teatro, le pochissime occasioni di vedere in scena un suo testo s’erano concluse con grossi insuccessi.

A 30 anni aveva voluto vivere un’esperienza fuori dal comune sull’isola di Sachalin, nella Siberia affacciata sul Pacifico, dove il regime zarista confinava in lager detenuti politici e comuni. Lì aveva messo a frutto le sue due vocazioni: aveva svolto l’attività di medico presso i detenuti e aveva raccontato le loro condizioni di vita in una sorta di reportage dall’isola di Sachalin.

Quel 17 ottobre 1896, al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, andò in scena una commedia di Čechov, Il gabbiano. Il teatro Aleksandrinskij era uno dei teatri più importanti di tutta la Russia e a portarlo in scena era una delle più famose Compagnie teatrali russe. Ma, nonostante questo, lo spettacolo fece registrare un fiasco clamoroso. Čechov rimase talmente provato dall’insuccesso da reagire con la drastica decisione di non scrivere più per il teatro.

Proprio in questo momento di rifiuto del teatro da parte di Čechov, all’interno di una raccolta di testi teatrali, viene pubblicato il suo Zio Vanja (un testo che aveva scritto una decina d’anni prima), ma egli rifiuta, a una compagnia di Mosca, di farlo portare in scena: la sua decisione di troncare con il teatro appare irrevocabile.

Fu Nemirovič-Dančenko, uno dei più importanti uomini di teatro del tempo, a convincere Čechov a proseguire nell’attività drammaturgica. Nemirovič-Dančenko aveva spinto Konstantin Stanislavskij a fondare il Teatro d’Arte a Mosca ed era convinto che le novità assolute che Čechov stava portando alla scrittura teatrale si sarebbero sposate perfettamente con la rivoluzione teatrale che Stanislavskij aveva avviato e che non aveva ancora trovato il testo giusto con cui esplodere. La scrittura leggera di Čechov, in cui le cose più importanti non erano scritte ma lasciate tra le righe, non poteva trovare espressione attraverso la recitazione pomposa delle compagnie dell’epoca, ma bene si sarebbe adattata alla ricerca di verità sulla scena che animava Stanislavskij e i suoi attori.

Il 17 dicembre del 1898, al Teatro d’Arte di Mosca, Stanislavskij porta in scena Il gabbiano di Čechov, a due anni di stanza dal fiasco di San Pietroburgo. Durante il primo atto, il pubblico in sala, stranamente, non aveva manifestato in alcun modo le proprie impressioni, sicché gli attori non riuscivano a rendersi conto se quel silenzio volesse indicare gradimento o indifferenza. Alla chiusura del sipario che mise termine al primo atto, Stanislavskij e tutti gli attori restarono in scena, in attesa che, al di là del sipario, il pubblico manifestasse il proprio giudizio. Per pochi ma lunghissimi secondi, poterono ascoltare soltanto un inquietante silenzio che fu interpretato dagli attori come segno di rifiuto. Quando qualcuna delle attrici stava per piangere di fronte a quell’annunciato insuccesso, la sala esplose in un fragorosissimo applauso che sembrava non volesse terminare più. Quell’applauso annunciò il successo de Il gabbiano, della Compagnia di Stanislavskij e di Čechov.

La storia del teatro aveva vissuto, quella sera, una delle rare rivoluzioni destinate a cambiare radicalmente un modo d’intendere la scrittura e la pratica teatrale. Quei pochi secondi di silenzio che precedettero l’applauso del pubblico stavano a significare che gli spettatori si erano resi conto di aver assistito a qualcosa di mai visto né udito. Avevano avuto bisogno di qualche momento per capire se quell’assoluta novità fosse o meno di loro gradimento e con quell’interminabile applauso avevano deciso che sì: quella novità era qualcosa di straordinariamente affascinante.

Sull’onda del successo de Il gabbiano, quindici giorni dopo la prima, Nemirovič-Dančenko chiede a Čechov di far rappresentare alla Compagnia di Stanislavkij anche Zio Vanja. Čechov accetta e il Teatro d’Arte di Mosca di Stanislavskij decide di inaugurare la nuova stagione teatrale 1899/1900 proprio con Zio Vanja. Il 27 maggio 1899 Stanislavskij termina di stendere le sue note di regia al testo; alla presenza di Čechov, la Compagnia fa la prima lettura a tavolino; il 20 ottobre Zio Vanja va in scena ripetendo il successo de Il gabbiano. Čechov, però, non può essere presente alla prima rappresentazione perché la tubercolosi di cui soffre da tempo lo aveva costretto a trasferirsi a Jalta, in Crimea. A primavera, allora, è tutta la Compagnia del Teatro d’Arte di Mosca a decidere di scendere in Crimea per una tournée che consenta a Čechov di vedere il suo Zio Vanja in scena. Così ebbe inizio il successo di uno dei testi maggiormente rappresentati di Čechov.

Nei testi teatrali di Čechov sembra accada mai niente. In effetti accade poco, se il lettore e lo spettatore intendono l’accadere di azioni esteriori, di fatti eclatanti e colpi di scena. In Čechov accade poco di tutto questo perché ad accadere continuamente sono eventi che concernono la vita interiore dei personaggi: tanto lenti sono i ritmi esteriori delle opere di Čechov quanto vorticosi sono quelli interiori. E così è anche in Zio Vanja.

Nella tenuta di campagna della famiglia Serebrjakov non accade alcunché di particolare. Tutto è scandito regolarmente: la mattina alle otto si prende il tè, all’una si pranza, alla sera si cena. I lavori dei campi sono organizzati e diretti da Sonja, la figlia del proprietario, e da suo zio Vanja (fratello della prima moglie di questo proprietario). Con loro è la vecchia balia, Marina: anche lei contribuisce a scandire la regolarità quotidiana alternando al rito del samovar il lavoro alla calza. La casa è frequentata, saltuariamente, da Astrov, un medico con una spiccata passione per la conservazione della natura e preoccupato per il progressivo degrado che egli nota nel paesaggio russo.

Le cose cambiano quando il proprietario, il professor Serebrjakov, che normalmente vive in città, decide di trascorrere qualche periodo in campagna insieme alla sua giovane e affascinante seconda moglie, Elena. La loro semplice presenza, in maniera misteriosa, è destinata a sconvolgere la rassicurante regolarità della vita di campagna: Sonja e zio Vanja smettono di lavorare, quest’ultimo è innamorato della bella Elena e non fa che starle dietro, così come pure il dottor Astrov, che intensifica le proprie visite, formalmente per curare i malanni del vecchio professor Serebrjakov, di fatto perché anch’egli invaghito di Elena.

Serebrjakov non ama la vita in campagna ma non può ormai permettersi più di vivere in città per motivi economici e allora ha un’idea: vendere la tenuta di campagna, investire in titoli di Stato e, con gli interessi, comprare una dacia in Finlandia. Questa, che per Serebrjakov è la soluzione a tutti i problemi, per zio Vanja è la notizia che fa esplodere in lui rancori mai sopiti: per un’intera vita egli s’è sacrificato per il cognato, ha lavorato per lui rinunciando alla propria parte di eredità affinché la defunta sorella potesse acquistare quella tenuta dove pensava di poter trascorrere ormai il resto della vita insieme alla nipote Sonja e ora si trova dinanzi all’eventualità di essere cacciato via.

La reazione di Vanja è terribile e, al tempo stesso (come sempre in Čechov), ridicola.

Ma non è questo il punto. Non interessa sapere “come va a finire”. Attraverso questa esile storia, Čechov ci ha messo dinanzi persone (non personaggi) che, per quanto radicate nella Russia della fine del XIX secolo, ci appaiono contemporanei per la verità del loro mondo interiore. E, soltanto per accennare a uno dei molteplici aspetti di queste vite, chi partecipa a Zio Vanja ha modo di ridere della tronfia prosopopea di Serebrjakov, di urtarsi per l’artificioso cinismo ostentato da zio Vanja, di adagiarsi nella rassicurante bonomia di Marina, d’irritarsi per la sconcertante ignavia in cui è immersa Elena, di entusiasmarsi per gli avveniristici progetti di Astrov, di commuoversi dinanzi alla disarmante fiducia nella vita che ha Sonja. E prova questi sentimenti perché in ognuno di essi riconosce tratti di sé.

Se un regista riesce a non sciupare il delicato equilibrio dei testi di Čechov può dirsi pienamente soddisfatto: non deve mettersi di mezzo, non deve aggiungere, non deve cercare di spiegare, non deve rendere esplicito.

Com’era solito dire Čechov a Stanislavskij: “Tutto è già scritto!”

Aggiungo io: “Lo si può soltanto sciupare”.

Ho diretto tre testi di Čechov in tre fasi diverse della mia vita.

Il gabbiano, quando ancora non avevo trent’anni (l’età in cui Čechov scrisse Zio Vanja): lo affrontai con incoscienza, cercando di sottolineare ciò che mi sembrava importante con la colonna sonora e affidandomi a un realismo naturalistico che, avrei capito dopo, se è naturalismo non è realismo.

Il giardino dei ciliegi, quando avevo trentotto anni (l’ètà che aveva Čechov quando Zio Vanja fu portato in scena) e avevo cominciato a intuire qualcosa del mondo straordinario dei testi cechoviani: il naturalismo cedeva decisamente il passo al realismo e il silenzio diventava la cosa più importante da interpretare.

Zio Vanja l’ho affrontato adesso che ho superato i cinquant’anni (Čechov non li avrebbe mai raggiunti poiché morì a quarantaquattro anni) e, per quanto ancora molto mi resti da comprendere di Čechov, il suo modo di vedere la vita ha profondamente ispirato il mio modo di rapportarmi a essa, cosicché Čechov me lo porto dentro non soltanto quando dirigo un suo testo e tutto questo si traduce, nell’impostare una regia, nel sottrarmi quanto più mi è possibile per lasciar parlare ciò che ha scritto, pur sapendo che questo impegno resterà sempre e soltanto un tentativo.

GIANCARLO LOFFARELLI