PICCOLA CITTA'
di
Tornton Wilder


NOTE DI REGIA

 (...) "La leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca", dice Italo Calvino nel capitolo dedicato alla "Leggerezza" delle sue Lezioni americane. Ed il principio attorno al quale ho cercato di sviluppare la messinscena di Our Town è stato proprio quello della leggerezza. Col nostro gruppo venivamo dal lungo lavoro su Cechov che aveva portato come frutto la rappresentazione de II gabbiano ed il filo conduttore che lega i due lavori è la frase di Peter Szondi nel suo Teoria del dramma moderno in cui afferma: "Per il lirismo melanconico che assume qui la vita quotidiana, Wilder deve molto ai drammi di Cechov".

La leggerezza, dunque: perché il teatro è arte della leggerezza, della caducità, del transeunte.

(...) In secondo luogo: la vicinanza. Per quanto introdotto alle avanguardie dalla frequentazione di Gertrude Stein, Wilder è a Roma a studiare i classici mentre Hemingway e gli altri della "generazione perduta" vivono la boheme di Parigi. Si trattava allora, nella messinscena, di tirar fuori quanto di "classico" si celava dietro l'ambientazione del testo nella provincia americana.

(...) Ma soprattutto c'è, nella nostra messinscena, il rifiuto della fissità scenica tipica del teatro borghese, che ha sempre coartato spazio e tempo con l'ingombrante utilizzo di scene ed oggetti. E allora, così com'è nell'intenzione di Wilder: via scenografie ed oggetti di scena. Se, come dice l'autore, "ogni azione che è accaduta - ogni pensiero, ogni emozione - è accaduta una sola volta, in un dato momento nello spazio e nel tempo. Ogni persona è vissuta attraverso una serie ininter- rotta di esperienze uniche", la fisicità degli oggetti non può che essere di disturbo, perché essi non sono nell'istante ma durano.

(...) Ciò che resta è la parola; parola evocatrice e creatrice, che deve scavare nel buio della scena attimi di esistenza, poiché il pubblico, mediatore lo Stage Manager, la figura demiurgica del regista, è collocato in quella situazione che è negata ad Emily ed ai viventi in genere, quella del veder vivere e, soprattutto del vedere il futuro.

(...) In fondo, si tratta di far parlare soprattutto il silenzio, gli spazi ricavati da un dire che tenta di dire la sua stessa assenza; e ciò è annunciato dall'unico brano musicale che utilizzo, mai a sovrapporsi alla parola, il secondo movimento della sonata n. 5 per violino e pianoforte in Fa maggiore, op. 24 di Beethoven.

(...) Agli attori chiedo che ogni atto possa darsi con la coscienza della sua unicità, caricandolo di senso oltre la sua banalità quotidiana, come insegna il teatro Nò. Ciò non vuol dire spersonalizzarsi, al contrario esprimere la personalità con un procedimento che sottrae anziché addizionare, che coglie l'essenziale anziché accumulare dettagli".

GIANCARLO LOFFARELLI