LA TEMPESTA DI PROSPERO
Adattamento da The Tempest di William Shakespeare di
Giancarlo Loffarelli

PRESENTAZIONE

Il 29 luglio 1609 giunse a Londra la notizia che il vascello "Sea-Adventure", sorpreso da una violenta burrasca nel mare delle Bermude era andato a fracassarsi contro quelle coste ed equipaggio e passeggeri erano affondati. Il vascello faceva parte di un convoglio di altri nove, che trasportavano 500 coloni verso la Virginia, la terra del Nuovo continente (ancora denominato "Indie Occidentali") dove già nel 1585 sir Walter Raleigh aveva stabilito una colonia inglese, chiamando "Virginia" quella terra in onore della Regina "vergine" Elisabetta.

Un anno dopo, maggio 1610, giunse la notizia che tutti quelli che erano a bordo del "Sea-Adventure" erano giunti sani e salvi in Virginia, dopo aver trovato rifugio su un'isola delle Bermude, nella quale avevano potuto costruirsi rudimentali mezzi idonei per proseguire il viaggio fino a destinazione.

Sembra che Shakespeare, oltre che dalla voce popolare, abbia potuto leggere un più dettagliato resoconto della vicenda dalla lettera di uno dei passeggeri del "Sea-Adventure", William Strachey.

Nello stesso periodo, circola in Inghilterra una History of Italy di William Thomas in cui si parla della spedizione in Italia del re di Francia Carlo VIII, nel 1494, su invito del duca di Milano, Ludovico il Moro, che siede su quel trono dopo averne spodestato il nipote Gian Galeazzo Sforza. Gian Galeazzo ha per moglie Isabella d'Aragona, figlia del re di Napoli Alfonso II. Alfonso II ha anche un figlio maschio di nome Ferdinando. Ludovico è ossessionato dal timore che gli Aragonesi di Napoli rivendichino i diritti di Isabella, duchessa spodestata; sollecita perciò Carlo VIII a far valere i suoi diritti dinastici sul regno di Napoli, come discendente degli Angioini, predecessori degli Aragonesi su quel trono.

Da queste due vicende, molto probabilmente, Shakespeare prende lo spunto per la sua The tempest. Il tema del duca di Milano (Prospero) spodestato da un suo parente (Antonio) e la presenza di personaggi con i nomi dei personaggi reali (Alonso, contrazione di Alfonso, e Ferdinando suo figlio) è evidente.

All'interno di questo impianto, Shakespeare mescola diversi materiali, comprese fonti letterarie come il Metamorphoseon di Ovidio e il saggio Des cannibales di Montaigne e crea un intreccio originale con cui, fra l’altro, per l’ennesima volta, ci confida il proprio rapporto con il teatro.

Gli antefatti ci vengono narrati dai personaggi: Prospero racconterà a Miranda la vicenda della sua cacciata da Milano, del viaggio in mare e dell'approdo sull'isola; Ariel elencherà ad Alonso e Antonio i loro "peccati" contro Prospero; Caliban ricorderà quando sua madre Sicorace e lui erano i soli padroni dell'isola.

The tempest, insomma, ha tutte le caratteristiche di una grande retrospettiva. E non è difficile vedere in essa una retrospettiva allegorica che il poeta fa di se stesso e della propria arte. Quando scrive l’opera, Shakespeare ha 47 anni; il ciclo delle grandi tragedie è concluso; la fama e l'agiatezza sono state raggiunte, forse il suo animo è un po’ stanco ed egli pensa al ritorno a Stratford, dove ha acquistato un’importante proprietà immobiliare.

Con questo lavoro il poeta prende, dunque, congedo dal palcoscenico; prima di farlo si volge indietro e ripercorre il proprio cammino artistico identificandosi nell'immagine di Prospero che, alla fine, spezzando il proprio bastone, mette fine al mondo magico da lui stesso creato.

È, forse, il testo sull’eterna contrapposizione (dialettica nel senso propriamente hegeliano) fra contemplazione e azione, cultura e politica, pensiero e prassi. Prospero, con le sue conoscenze, agisce? Oppure per agire ha bisogno della mediazione di Ariel, cui ordina di scatenare la tempesta?

Proprio per questo, il lavoro drammaturgico e registico da me operato sul testo di Shakespeare, ho voluto chiamarlo La tempesta di Prospero. Prospero è colui che scatena la tempesta e che, attraverso le proprie arti, produce tutta la vicenda, esattamente come accade al drammaturgo. In tale prospettiva, ho inteso limitare al massimo l’interpretazione delle “arti” di Prospero come arti magiche. Prospero non è un mago, bensì un intellettuale, il suo è un bastone, non una bacchetta magica e il suo mantello non è altro che un cappotto; vive per i suoi libri, in qualche modo ha permesso a suo fratello di congiurare contro di lui proprio perché, volendosi dedicare allo studio e alla cultura, ha abdicato alla vita politica. Altro grande tema, dunque, proprio questo, al centro di questo lavoro: il rapporto fra cultura e politica, fra azione e contemplazione, volto a lasciare al pubblico in eredità la domanda se sia possibile che i corni di questa problematica possano sintetizzarsi o debbano, inevitabilmente, porsi come alternativi.

La centralità di Prospero è però inevitabilmente connessa a quella delle due figure che vengono presentate come suoi “servitori”: Ariel e Caliban. Apparentemente opposti, lo “spiritello” Ariel e il “mostro” Caliban, a mio avviso, si presentano come le due facce della stessa medaglia al fine di contribuire, ancora una volta, a sottolineare la complessità della demarcazione fra bene e male, fra vittima e carnefice, fra servo e padrone. Proprio per rendere più evidente questa linea di lettura, ho affidato a un’unica attrice l’interpretazione di entrambi i personaggi, pur mantenendo gli elementi esteriori di opposizione fra di loro: bianco/nero, indole aerea/indole terragna.

Per le stesse motivazioni, ho chiesto a Paolo Giusti, nella composizione dei due Temi musicali originali presenti nella messinscena (accanto a opere “classiche” di Prokofiev, Mascagni, Bizet e Sibelius), quello di Ariel e quello di Caliban, che essi fossero strutturalmente collegati fra di loro. Ne sono uscite due composizioni che nascono da un’idea contrapposta ma contigua di cielo e di terra: due realtà che si toccano ma non si amano, entrambe nascenti da una tonalità minore che quindi sfociano in una maggiore, pur se in modo diverso. Ariel nasce in un tono minore dolce e leggero come pulviscolo o batuffoli di cotone che volano leggeri nell’aria. Il primo tema è trattato in modo contrappuntistico tra un flauto e due violini per sfociare nella gaiezza del secondo tema, in forma di danza. Caliban è nello stesso tono minore ma più pesante, tanto da non riuscire quasi a staccarsi dalla terra alla quale appartiene come elemento della stessa materia; sfocia anch’esso in un maggiore, però più inquietante e sempre affidato all’oboe, strumento che Shakespeare stesso sente come demoniaco.

In quest’opera, Shakespeare rompe le unità di luogo e di azione per mantenere quella di tempo. Io ho voluto rompere anche questa, per consegnare la vicenda a un’extratemporalità che le faccia attraversare le epoche con maggiore evidenza.

Ho voluto, infine, comporre l’insieme cromatico della scena basandomi sulla teoria dei colori di Goethe (in Zur Farbenlehre), vale a dire costruendo opposizioni cromatiche che producono una forza attrattiva: Ariel (bianco)/Caliban (nero); Ferdinand (rosso)/Miranda (verde); Prospero (blue)/Alonso (arancio); Trinculo (giallo)/Antonio (viola).

GIANCARLO LOFFARELLI